Il fallimento delle politiche sull’immigrazione in Italia

Tratto da Pagina99 (LINK)

di Nicolò Cavalli

L’edizione di pagina99We in edicola sabato 2 agosto seguiva le operazioni dell’agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite(UNHCR) raccontando le rotte e le difficoltà delle migliaia di persone che ogni estate si mettono in mare, in cerca di speranza sulle coste italiane. Nel pieno dell’emergenza degli sbarchi, siamo anche intervenuti riproponendo l’idea di un corridoio sul Mediterraneo per razionalizzare le richieste di asilo dei rifugiati. Ma c’è un altro lato della medaglia, quello degli stranieri che vivono già in Italia, e che negli ultimi decenni hanno visto accrescere il loro peso in termini numerici ed economici nella vita del Belpaese. Nonostante la sua evidente rilevanza, il dibattito sugli effetti e la desiderabilità (o forse inevitabilità) dei flussi migratori è troppo spesso lasciato a spinte emotive che confondono il merito delle questioni. Secondo i dati dellaTransatlantic Trends Survey, tra i paesi economicamente avanzati l’Italia è tra quelli in cui l’opinione pubblica è più attenta al tema migratorio: l’80% dei rispondenti dichiara infatti di seguire costantemente news legate all’immigrazione, e più del 50% dichiara di ritenere che ci sono troppi immigrati. Eppure, questa quota scende a circa il 30% per quei rispondenti che, prima della domanda, venivano informati sul reale numero degli stranieri residenti nel Paese.

Percentuale di persone che ritengono ci siano “troppi immigrati”: in nero quelle non informate sul numero effettivo

Nel 2012, gli stranieri con regolare documentazione che vivevano in Italia erano infatti 4,9 milioni – circa l’8 per cento della popolazione totale. Difficile definire il numero di irregolari, ma alcune stime calcolano che questi siano tra i 500 e i 750mila. In totale, si tratta di una popolazione di quasi 6 milioni di persone. Secondo il rapporto “Legal and illegal carriers” pubblicato lo scorso anno dalla Fondazione Rodolfo de Benedetti, e curato dai ricercatori Francesco Fasani e Paolo Pinotti di Queen Mary e Bocconi, il 30% risiede nel Nord-Ovest, il 26% nel Nord-Est, il 27% al Centro e il restante 13% tra Sud e Isole. Gli oltre 2 milioni di stranieri che lavorano in Italia contano per più del 10 per cento del totale degli occupati. Il tasso di occupazione dei residenti stranieri, insomma, è molto elevato (il 63% nel 2011, contro il 52% degli italiani). Il 59% di essi è occupato nei servizi, il 20% nella manifattura, il 17% nelle costruzioni e il 4% nell’agricoltura. Per lo più, sono impegnati in occupazioni a bassa qualifica, che secondo alcune stime rimangono scoperte per il 26,7% a causa della mancanza di offerta di lavoro da parte di italiani. Di conseguenza, il reddito dei lavoratori stranieri è circa il 23% più basso rispetto al reddito medio dei lavoratori italiani, Nonostante questo, la maggioranza degli stranieri regolarmente soggiornanti ha un contratto di lavoro, quindi paga le tasse: il contributo previdenziale dei lavoratori stranieri è stato di circa 7,5 miliardi di euro nel 2008, il che va aggiunto a un gettito fiscale di 4,5 miliardi di euro.

Percentuale di immigrati sulla popolazione residente (in nero gli immigrati illegali) 

Sempre secondo la Transatlantic Trend Survey, quasi il 70% degli Italiani (la quota più alta tra i paesi avanzati) teme che il fenomeno dell’immigrazione aumenti la criminalità. Nella maggior parte dei paesi Ocse, in effetti, la popolazione immigrata è sovrarappresentata nelle carceri: in Italia, ad esempio, pur contando solo l’8% del totale della popolazione, gli immigrati pesano per il 33,4% della popolazione carceraria. In questo ambito, ci sono forti differenze tra immigrati legali e illegali. Questi ultimi contano infatti per un 15-20% della popolazione straniera residente, ma per l’80% degli stranieri arrestati per crimini contro la proprietà e per il 60-70% di coloro arrestati per crimini violenti. Il 10% degli immigrati, quelli irregolari, compie insomma il 70% di tutti i crimini della popolazione straniera. Una dato che sembra confermare le preoccupazioni degli italiani, anche se solo in apparenza. Nel 2006, ad esempio, gli stranieri contavano per il 25% di tutte le condanne giudiziare ma per il 48% degli ingressi in carcere, il che contribuisce a una rappresentazione distorta del fenomeno. Gli stranieri residenti in italia, infatti, hanno un più tasso alto di incarcerazione prima della condanna finale: nel 2011 era il 47%, contro il 37% dei cittadini italiani. Inoltre, il 40% di essi entra in carcere anche per condanne inferiori ai tre anni, contro solo il 23% degli italiani. Infine, nel 2011 solo il 12,7% di essi ha usufruito di pene alternative, contro il 30,7% degli italiani.

Quota di stranieri sul totale della popolazione carceraria italiana, evoluzione nel tempo 

In realtà, è noto nella letteratura sociologica ed economica che la propensione al crimine della popolazione immigrata è del tutto simile a quella dei nativi, al netto di elementi demografici (la popolazione immigrata è infatti solitamente composta da maschi giovani, quindi di per se piu proni a commettere crimini) e condizionatamente alla situazione socio-economica in cui questi si trovano. Una recente ricerca della Queen Mary University e dello University College of London ha ad esempio analizzato due recenti shock migratori che hanno colpito la Gran Bretagna, valutandone gli effetti in termini di tassi di criminalità. Il primo è legato all’ingresso, a partire dal 2004, di lavoratori dall’Est europa, con l’adesione a Schenghen di paesi del blocco ex-sovietico. In seguito a questo afflusso di stranieri, i tassi di crimini violenti in quelle zone di Inghilterra e Galless toccate dal fenomeno migratorio sono rimasti stabili, mentre sono diminuiti i crimini contro la proprietà. Il secondo flusso studiato è invece quello di rifugiati di fine anni ’90. In questo caso, una sostanziale stabilità dei crimini violenti si accompagnò a una crescita dei crimini contro la proprietà. Come riportato dal The Economist, è lo stesso Francesco Fasani, co-autore della ricerca, a spiegare che la differenza nelle dinamiche è principalmente dovuta alla differente condizione sociale ed economica dei nuovi arrivati: i migranti provenienti dall’Est Europa, infatti, potevano sfruttare reti di conoscenze presenti già sul territorio inglese, così che molti riuscirono a ottenere dei lavori prima di trasferirsi. Al contrario, i rifugiati di fine anni ’90 non avevano previsto di dover lasciare il proprio paese, e fu il governo inglese a decidere dove avrebbero vissuto – spesso in aree povere, dove i tassi di criminalità erano già alti. Durante la decisione sullo status di rifugiato, inoltre, per loro non fu possibile lavorare e gli furono concesse trasferimenti limitati di risorse. Ecco dunque la differenza negli effetti finali. La variabile fondamentale risulta quindi, spesso, quella istituzionale: gli irregolari, infatti, non possono lavorare nei settori formali dell’economia, aprire un’impresa, usufruire facilmente dei servizi medici, ecc, una condizione che conduce a una più elevata probabilità di commettere crimini.

Sovrarappresentazione dei migranti nella popolazione carceraria rispetto alla loro presenza nella popolazione 

Nel caso italiano, la sovra-rappresentazione degli immigrati nella popolazione carceraria potrebbe essere quindi legato non tanto alla propensione al crimine, quanto dal funzionamento inadeguato del sistema giudiziario e delle politiche migratorie. Queste, in Italia, si sono basate negli anni sul un sistema di quote e una serie di amnistie. Il sistema di quote, stabilito nel 1998 dalla Turco-Napolitano e confermato nel 2002 dalla Bossi-Fini, si basa su Decreti Flussi annuali (quello del 2014 prevedeva 15mila ingressi), che stabiliscono quanti lavoratori stranieri potranno entrare in Italia in un dato anno, ripartendoli sulla base del tipo di lavoro (stagionale e meno) e a livello regionale. Questi decreti, tuttavia, hanno svolto di fatto la funzione di legalizzare ex-post la posizione di lavoratori immigrati già presenti in Italia, dove erano occupati clandestinamente. La prassi, insomma, è rapidamente diventata quella di entrare nel paese clandestinamente (lasciando ad esempio scadere un visto turistico), trovare un datore di lavoro interessato a legalizzare la posizione professionale e poi aspettare un “decreto flussi” per fare domanda di accoglimento. In totale, a partire dalla loro introduzione, i decreti flussi hanno permesso l’ingresso (o regolarizzazione) di circa 1,7 milioni di lavoratori immigrati.

Decreti flussi, tasso di disoccupazione e domanda di lavoratori stranieri

Ma poiché lo stock totale di migranti era comunque più alto dei quanto fosse possibile assorbire con singoli decreti flussi annuali, dal 1986 a oggi si sono registrate 7 “amnistie” (1986, 1990, 1995, 1998, 2002, 2009 e 2012, adottate in maniera rigorosamente bipartisan da governi di centro, di sinistra, di destra e di tecnici). Queste hanno legalizzato quasi 2 milioni di immigrati clandestini: ossia poco meno della metà della popolazione attualmente presente in Italia. Nel 2002, ad esempio, la legalizzazione di 650mila immigrati irregolari ha condotto a un aumento del 70% della popolazione totale di origine straniera. Quella delle amnistie, tuttavia, è stata una politica fallimentare sotto vari aspetti. Innanzitutto dal lato della stabilizzazione del numero di migranti irregolari. Che è cresciuto dopo ogni amnistia a livelli paragonabili a quelli precedenti, anche a rispecchiare un incentivo ad entrare illegalmente in attesa della successiva legalizzazione. Inoltre, analizzando gli effetti delle amnistie sulla criminalità, Fasani e Pinotti mostrano che queste avrebbero ridotto il numero di crimini, in particolare in quelle regioni con una più elevata percentuale di lavoratori stranieri sul totale. In particolare, secondo le loro stime, per ogni aumento del 10% nel numero di immigrati legalizzati c’è stata una riduzione dello 0,3% nei procedimenti contro gli immigrati nell’anno successivo al provvedimento di amnistia. Questo effetto, tuttavia, scompare due anni dopo i provvedimenti.

Stima del numero di immigrati irregolari in Italia dal 1990 al 2010 

Un analogo discorso può essere fatto per gli effetti delle quote dei decreti flussi. Nel 2007, le richieste sono state inoltrate attraverso dei click-days (tre nel 2007, il 15 il 18 o il 21 dicembre). Collegandosi al sito del ministero dell’interno, i richiedenti potevano presentare la loro domanda in un orario fissato, seguendo la logica “first-come-first-served”: le domande venivano accettate fino all’esaurimento dei permessi disponibili. Nel loro rapporto, Fasani e Pinotti utilizzano dati ministeriali sulle domande di permesso di soggiorno (sul momento in cui sono state presentate, a che ora, e da quale provincia), collegandoli a dati del Sistema di Indagine Interforze sulla storia criminale dei richiedenti, in modo da sapere se, nell’anno successivo al click-day questi avessero commesso crimini di qualche tipo. In questo modo, i due ricercatori hanno potuto studiare se l’ottenimento dello status di lavoratore regolare ha avuto un effetto sulla  probabilità di commettere crimini. Questo dietro l’assunto che la logica del click-day è fondamentalmente casuale. Sebbene possono esserci differenze (ad esempio di attitudini e motivazione verso il proprio status legale, che possono essere legate alla probabilità di commettere crimini) tra un individuo che presenta la propria domanda appena possibile e uno che la presenta con molte ore di ritardo, non ci sarà invece molta differenza tra un individuo che clicca per inviare la domanda di permesso un minuto prima o un minuto dopo l’assegnazione dell’ultimo posto disponibile. Ciononostante, Fasani e Pinotti trovano che la concessione dello status di lavoratore regolarmente soggiornante (una questione di secondi, a volte) diminuisce di per se e in maniera significativa la probabilità di commettere crimini.

Probabilità di commettere un crimine per coloro che hanno ottenuto un permesso (linea rossa, a livelli più bassi) e non (linea blu, a livelli più alti)

Insomma, le restrittive politiche italiane in termini di permesso di soggiorno hanno contribuito a elevare i tassi di criminalità registrati, incentivando periodi di lavoro irregolari in attesa della successiva sanatoria. Il che lascia con due alternative: o uno sforzo di polizia molto superiore di quello presente, oppure chiudere l’attuale gap tra l’effettivo numero di immigrati permessi dalle quote e il numero di potenziali lavoratori stranieri, spesso già presenti in Italia. La prima soluzione potrebbe disincentivare nuovi ingressi irregolari, dando l’immagine di un giro di vite sull’immigrazione clandestina, ma avrebbe costi fiscali enormi, probabilità di successo limitate, e peserebbe probabilmente sull’economia italiana. Infatti, un recente studio condotto da due economisti, Gianmarco Ottaviano e Giovanni Peri, mostra che, contrariamente a quanto spesso ritenuto, i lavoratori stranieri non competono al ribasso sui salari dei lavoratori dei paesi d’origine – anzi, la domanda di lavoratori stranieri è complementare (e non sostituta) di quella dei lavoratori d’origine così che, nelle zone a maggiore integrazione, si registra un aumento di produttività e salari grazie alla maggiore specializzazione produttiva. Stime confermate da un recente studio sui paesi Ocse, secondo cui un moderato aumento dell’immigrazione aumenterebbe il benessere dei lavoratori nativi dell’1,25 per lavoratori ad alta qualifica e dell’1% per lavoratori a bassa qualifica. L’Italia sarebbe tra i paesi che più beneficerebbero da una politica sull’immigrazione più informata.

Cambiamento nel benessere dei lavoratori nativi in seguito a un moderato aumento della popolazione straniera

 

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