Paralimpiadi 2016, Vervoort choc: “Vinco l’oro, poi mi uccido”

Tratto da Quotidiano.net (LINK)

Rio de Janeiro, 8 settembre 2016 – Si può essere grandi atleti ma convivere con il dolore, non dormire la notte, non riuscire a fare quei piccoli gesti quotidiani che per i normo dotati sono la routine necessaria a vivere. Marieke Vervoort sta per disputare le sue ultime Paralimpiadi a 37 anni, dopo due medaglie – oro e argento a Londra su 100 e 200 metri – e 5 titoli mondiali. Una sprinter su carrozzina paragonabile a Usain Bolt, per intenderci. Che a Rio 2016 punta ancora alla medaglia. Ma questa è la dura realtà delle Paralimpiadi, di atleti diversamente abili, persone, uomini che hanno reagito alla sfortuna della vita non volendo arrendersi ad una malattia o ad un incidente. E’ un’esistenza particolare, difficile, diversa dalle altre. E poi i riflettori, su Bolt ci sono sempre, basta che corra o si faccia un selfie con una sconosciuta dopo una serata di festa, invece gli atleti paralimpici salgono agli onori della cronaca ogni 4 anni, un po’ come il curling o il tiro con l’arco alle Olimpiadi.

Nessuno sa, però, che questi esseri umani non combattono solo sulla pista di atletica, ma anche nella vita, con le loro menomazioni, i loro problemi, ritagliandosi un modo di vivere basato sulle esigenze nate da una disabilità perenne. E così Marieke è giunta al suo ultimo atto, quella carrozzina, quella pista, due entità che riescono darle sollievo da una terribile malattia degenerativa che l’ha colpita alla tenera età di 14 anni. Un gonfiore al piede, poi i dolori alle ginocchia e a soli 20 anni la sedia a rotelle, la sua amica di una vita. Dopo 17 anni in cui anche per cambiarsi i vestiti è servito un assistente, dopo anni di aiuti medici e di cure 4 volte al giorno quando i dolori sono insopportabili, anche l’unica evasione per Marieke è giunta al termine. Farà i 100 e i 400 metri nella categoria T52, sogna di chiudere con un podio, perché anche fare l’atleta è difficile quando durante alcune notti “dormi solo 10 minuti”. E una volta chiusa la carriera agonistica? C’è la vita, quella dura, quella afflitta da una malattia canaglia che riduce l’esistenza ad un immobilismo impossibile da digerire per chi sfreccia veloce come il vento assieme alla sua carozzina. Troppo per la Vervoort, troppo dolore, troppa sofferenza, e se il progredire della sua malattia dovesse portarla ad uno stato vegetativo Marieke ha deciso cosa fare: “Sto pensando all’eutanasia, non voglio vivere in uno stato vegetale”. Carte già firmate, e se dovesse prendere l’estrema decisione niente funerale, niente chiesa: “Solo una coppa di champagne e che il mondo dicesse: Marieke ha avuto una bella vita, ma adesso non soffre più”.

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