70 anni fa l’eccidio delle Fosse Ardeatine

Tratto dal sito RaiNews (LINK)

Articolo di Veronica Fernandes

Il comando germanico ha, perciò, ordinato che, per ogni tedesco ucciso, dieci criminali comunisti badogliani siano fucilati. Quest’ordine è già stato eseguito.
(Il Messaggero, 25 marzo 1944)

Una frase asettica, pubblicata in un trafiletto. L’orrore dell’eccidio delle Fosse Ardeatine straripa dalle parole scelte dal Messaggero il 25 marzo del 1944 e arriva fino ad oggi, al 24 marzo del 2014, il 70esimo anniversario del giorno in cui le truppe di occupazione nazista uccisero 335 persone come rappresaglia per l’attentato partigiano di via Rasella, a Roma, il giorno prima, in cui morirono 33 soldati del reggimento Bozen. E’ il primo anniversario senza il suo boia, Erich Priebke, morto agli arresti domiciliari l’11 ottobre del 2013, dopo aver festeggiato il centesimo compleanno nella sua casa di Roma. Anche nelle sue ultime ore, l’ex ufficiale nazista aveva riacceso le polemiche con un video, diffuso dal suo legale, in cui continuava a difendersi: L’ordine era arrivato direttamene da Hitler e non poteva essere discusso. Un’affermazione più volte smentita dalle ricerche storiche. Priebke sosteneva anche che l’attentato di via Rasella fosse stato organizzato con lo scopo preciso di provocare la rappresaglia. Se la Storia fosse stata scritta dai gerarchi nazisti, le vittime oggi non avrebbero un nome, la strage sarebbe sepolta dal silenzio.

L’assalto di via Rasella
Siamo a Roma, occupata dall’8 settembre del 1943, una città piegata dalla fame e dalle incursioni aeree. Giorgio Amendola, a capo dei Gruppi di Azione Patriottica, organizza l’azione di via Rasella. Sceglie il 23 marzo – una data simbolica, l’anniversario della fondazione dei Fasci di Combattimento. Ricorderà, anni dopo, il battaglione Bozen che “passava ogni giorno alla stessa ora, con precisione teutonica”, lo sfregio quotidiano dell’occupazione.

I 33 morti del reggimento Bozen
L’esplosione avviene nel primo pomeriggio; via Rasella si trasforma immediatamente in un selva di mani alzate e di uomini e donne che gridano. Il comandante della Wermacht, Kurt Maeltzer, arriva ubriaco, minaccia di fare saltare in aria tutta la via. I partigiani coinvolti, intanto, riescono a disperdersi, a nascondersi.

“Hitler sembrava impazzito”
In Germania, Hitler va su tutte le furie quando riceve la notizia dell’esplosione; l’ex colonnello SS Eugen Dollman, ricorda che “sembrava impazzito: per ogni tedesco morto voleva uccidere 30, 50 italiani”.

Per ogni tedesco morirà un italiano
Nel corso nella giornata gli ufficiali tedeschi decidono che una rappresaglia di quella portata avrebbe finito per nuocere al Reich. La giusta misura, una proporzione aurea dell’orrore viene stabilita infine dal Feldmaresciallo Albert Kesselring: dieci italiani per ogni tedesco. A stilare l’elenco delle vittime è il tenente colonnello Herbert Kappler: detenuti comuni, condannati a morte, ebrei, civili rastrellati con l’aiuto della polizia fascista. E’ il questore Pietro Caruso ad aggiungere altre 50 vittime. Nella notte muore un altro soldato della Bozen, la lista delle vittime si allunga, ne servono altre dieci.

I camion carichi di detenuti
La rappresaglia ha inizio nel primo pomeriggio, quando i detenuti del Regina Coeli e di via Tasso vengono caricati sui camion e portati nel luogo scelto per l’eccidio, le antiche cave di tufo sulla via Ardeatina, poco lontano dall’Appia Antica, dove già si trovavano i resti di decine dei martiri cristiani. Nella sua deposizione Kappler racconterà di aver calcolato i tempi per uccidere in base al numero di suoi uomini, nelle armi e delle munizioni.

Cinque vittime in più
Quando li fanno scendere dai camion, Priebke e il capitano SS Karl Hass si rendono conto che la fretta e l’incuria hanno allungato la lista dei prigionieri: 335 invece di 330. Decidono di ucciderli ugualmente, liberarli avrebbe compromesso la segretezza della strage.

L’esecuzione in ginocchio
Li fanno scendere nelle gallerie male illuminate, a gruppi di cinque. Li fanno inginocchiare e sparano. Mentre le prime vittime cadono a terra, quelle successive sono costrette a mettersi in ginocchio sui loro corpi per andare incontro allo stesso destino. E così fino alla fine, quando i cadaveri ammassati sono così tanti che per sparare i soldati tedeschi devono calpestarli. Per nascondere alla cronaca e alla storia l’eccidio, Priebke e Kappler fanno saltare l’ingresso della cava. E se ne vanno. La portata della tragedia si verrà a conoscere solo nel giugno nel 1944.

Il lutto dei familiari e dei discendenti
Per lungo tempo i familiari delle vittime non sapranno dove cercarli, riceveranno solo un certificato di morte. L’incertezza e le lacune si tramandano per generazioni: “Tutta la storia delle Fosse Ardeatine è stata così tormentata che non è mai finita – ha ricordato pochi giorni fa il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni – Esistono ancora dei punti da chiarire ”

Gli interrogativi dei partigiani del GAP
I partigiani che hanno preso parte all’assalto di via Rasella, per ogni giorno della loro vita, saranno accompagnati dal dolore e dagli interrogativi. Carla Capponi – nel 1996, in una puntata di Mixer – prova a dare risposta ad uno dei più atroci: lo avrebbero fatto lo stesso, se avessero saputo della rappresaglia? “La Resistenza – dice – non può prescindere dal resistere; il nemico va combattuto”. Giorgio Amendola spiega a Gianni Bisiach, in “La battaglia di Roma” che in realtà non ci fu alcun invito di consegnarsi ai tedeschi, ma che, nel caso, “non ci saremmo presentati, eravamo in guerra”.

Kappler e l’evasione nella valigia
Ben diverso, invece, il destino dei carnefici. Kappler, condannato all’ergastolo nel 1948, evade nel 1976 dall’ospedale del Celio nascosto in una valigia grazie all’aiuto della moglie.

Kesselring torna in Baviera come un eroe
Il Feldmaresciallo Kesselring, condannato a morte per crimini di guerra, vede la pena trasformarsi in ergastolo e poi, per motivi di salute, torna ad assaporare la libertà. Accolto come un eroe dai circoli neonazisti in Baviera, collaborerà con loro fino alla morte.

La condanna a morte di Pietro Caruso
Pietro Caruso, condannato a morte, schernirà il plotone invitandoli a “mirare bene”.

I cento anni di Priebke
E poi Erich Priebke: per 50 anni libero di non fare i conti con il passato, viene scoperto nel 1994 a Bariloche. Viene processato a Roma, e lì muore, in un elegante appartamento del quartiere Aurelio, a cento anni, godendosi il lusso di lasciare, nel video diffuso dal suo avvocato, l’ultimo insulto ai martiri delle Fosse Ardeatine.

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